UN ACCADEMICO APPASSIONATO, di Vittorio Sgarbi
Roberto Ferri accende il mio orgoglio. Non ebbi dubbi sulla qualità della sua pittura, intesa anche come proprietà di esecuzione, quando, non molti anni fa, lo pose alla mia attenzione Fabio Isman, entusiasta per una grande mostra che aveva presentato.
Nessun dubbio che le opere chiamassero stupore e meraviglia secondo i precetti dell’estetica barocca. Ma Ferri era un contemporaneo e per di più giovanissimo. Colpiva in lui la borgesiana indifferenza per il tempo. Come se si dicesse: se devo dipingere, devo dipingere bene, altrimenti meglio fare il pasticcere, o, anche, come molti raffinati (da Giulio Paolini a Damien Hirst), il vetrinista. Ecco: una cosa possiamo dire di Ferri: non è un vetrinista. Eppure è adatto alle vetrine, ama esibirsi ed essere esibito. Ci tiene a essere riconosciuto virtuoso. E’ un pittore esclamativo, senza timore di essere Pompier. Se per alcuni soggetti risale ai Preraffaelliti, per l’armonia e la purezza delle composizioni, il suo modello è Bouguereau. Possiamo dirlo accademico? Certamente: un accademico appassionato, pronto a riconoscere il merito dei pochi che amano come lui la pittura: non l’ho mai sentito esprimere un giudizio negativo su altri artisti. Ferri sta per conto suo, nel suo mondo, d’altra parte impresentabile, perché remoto, inattuale, popolato di miti. Ed egli è così lontano che non teme di frequentare, non teme di affrontare il soggetto religioso. Oggi è difficile praticarlo, non solo per assenza di stimolo estetico, e di necessità ideale e perfino religiosa, ma soprattutto per assenza di committenti.
Ed ecco le ragioni del mio orgoglio.
Essendomi stato designato un compito straordinario come commissionario per la ricostruzione della Cattedrale di Noto per la parte decorativa, insieme a un gruppo di virtuosi amici, ho proposto di affidare la Via Crucis a Roberto Ferri mostrandone le meraviglie. Anche in questo caso Ferri non ha battuto ciglio. Ha preparato prima due modelletti e poi innumerevoli disegni offerti all’attenzione della commissione, in questo caso particolarmente puntigliosa nel dare suggerimenti e proporre varianti. Pazientissimo, Ferri, ha ascoltato tutti e ha accolto stimoli e suggestioni. Mai, da decenni, i committenti erano stati così esigenti e pretenziosi. Il risultato è ora davanti ai nostri occhi. Ferri ha reinventato, come il Pierre Menard, autore del Chisciotte, soggetti tante volte affrontati dagli artisti “nel nome del figlio”: la Passione di Cristo nelle quattordici stazioni di un rinnovato vivido classicismo. Antonio Ciseri, Wilhelm von Gloeden, Rodin, sembrano ossessionarlo per generare forme di grande evidenza plastica con un insistente atletismo. La sfida, spingendolo fuori del mito che è l’opzione prevalente nella scelta dei suoi soggetti, sta nell’affrontare il soggetto religioso senza retorica, ma come pretesto per una sublime accademia estranea a sentimentalismi devozionali. La poetica della statua, che aveva avuto il suo campione in Jacques-Louis David, si esalta a tal segno, da sortire effetti “stereofonici” nel nudo del Cristo e dei suoi deuteragonisti, negli ampi, voluttuosi panneggi, Ferri sembra ripartire da una riflessione sulla “Morte di Marat” con semplificazione compositiva e amplificazione teatrale. Nessuna bizzarria, nessuna concessione al gusto barocco, e, tampoco, caravaggesco. Ferri è coetaneo di Pietro Benvenuti, riparte da dove quello ha posato il pennello. Ed è un’accademia così radicale da generare il dubbio che non quella pittura, ma quei pensieri siano stati concepiti ora, nel nostro tempo. Ferri non è inattuale, è fermo, indisponibile a vedere la Passione di Cristo in forme diverse, avvertite di una sensibilità più moderna. Modernità, nel pensiero di Ferri, vuol dire tradimento, negazione della verità e della storia. Per questo Cristo ha un solo volto e la sua sofferenza non si può esprimere in forme diverse da quelle stabilite. Vale per Ferri come vale per Gibson. E non ci sono altre storie, altre iconografie possibili. L’interpretazione classicistica è l’equivalente della verità della storia. “Verum ipsum factum”. E il “factum” è precisamente quella pittura, non altra. Ferri sembra stabilire il codice definitivo della Via Crucis, come se non fosse possibile nessuna interpretazione alternativa e nessuna diversa iconografia. Egli sembrava, dopo la convinta reinterpretazione dei soggetti mitologici, anche presenti in questa esposizione, attendere di confrontarsi con il tema più alto e sublime, e in questo trovare la propria entelechia.
Averlo favorito è per me motivo di grande soddisfazione.
Che a ognuno sarà ora possibile condividere.
Vittorio Sgarbi